Domani ci aspettano per pranzo a Leopoli

18 Giugno 2024 Tempo di lettura: 6

di Emanuele Goldoni

E' ora di partire: domani ci aspettano per pranzo a Leopoli, una delle principali città dell'Ucraina. Può suonare strano, ma le porte dell'Europa in guerra sono lì, a sole 18 ore di viaggio in auto da Mantova. E allora, caricati i mezzi e riempiti i serbatoi, imbocchiamo subito l'autostrada per un viaggio verso nord-est che procede spedito macinando asfalto e sostando rapidamente negli autogrill.

La prima vera sosta la facciamo alla frontiera ucraino-polacca di Shehyni-Medyka, dove non troviamo molta fila ma le operazioni procedono a rilento: un'attesa che serve a ricordare a noi, figli di Schengen, quel viaggiare libero che diamo troppo spesso per scontato. I soldati sul lato est sono pochi: del resto il nemico non è qui ma a 1000 chilometri, dall'altra parte della nazione. Pian piano avanziamo lungo il check point: verifica dei passaporti, qualche domanda di rito, apertura del bagagliaio e anche qualche attimo di panico per presunti documenti mancanti ma poi, alla fine tutto, si risolve.

Allora, con un timbro in più sui passaporti, usciamo dall'Europa e ripartiamo verso la nostra meta lungo una statale che taglia campagne e piccoli villaggi. La guerra è già lì, nelle grosse buche nell'asfalto che spesso costringono a manovre azzardate per non distruggere le sospensioni. «Da quando la guerra è iniziata sono passati tantissimi camion e la strada si sta rovinando, - ci spiegheranno poi - ma il governo ora deve pensare soprattutto al fronte». Ah già, la guerra: ce ne eravamo quasi dimenticati arrivando a Leopoli. Questa grande città al confine occidentale sembra infatti sfiorata a malapena da tutto ciò che vediamo ogni giorno nelle immagini che arrivano dal fronte: qui la vita continua apparentemente normale, con strade trafficate e piazze e ristoranti in centro piene di persone. Vero, gli attacchi in questi anni ci sono stati anche a Leopoli, ma si possano contano sulle dita delle mani e parte dei palazzi distrutti è già stata ricostruita. In piazza, vicino a un bar, un gruppo di giovanissimi beve e scherza anche quando tolgono la corrente nel quartiere: semafori e lampioni si spengono ma il lavoro al bancone continua poiché tutti ormai tutti si sono organizzati con i propri generatori. Un'aria fin troppo festosa che solo il coprifuoco a mezzanotte sembra in grado di fermare. Ma la guerra invece è lì, intenta a passeggiare davanti alle vetrine: «Ognuno di noi - ci dicono - ha un padre o in fratello o un cugino o un caro amico in guerra. Non c'è giorno a cui non pensiamo a loro, che sono impegnati al fronte per la libertà del nostro popolo». E allora, alzando lo sguardo e prestando più attenzione, appare evidente come ci siano moltissime mamme con figli, adolescenti e anziani ma pochissimi uomini. «Siamo preoccupati per i nostri soldati? Sì, certo, ma la vita deve continuare - ci spiegano, intuendo la nostra confusione - e non possiamo lasciare che Putin paralizzi le nostre vite. Andare avanti così per noi è un modo per dire che Putin non ci ha piegati». Anche mentre parlano inizia a suonare la sirena antiaerea ma, intorno a noi, nessuno sembra sentirla «Vedete - ci mostrano una app sul cellulare - sono partiti in volo dalla Russia due Mig. Forse colpiranno vicino a Karkyv, forse rientreranno senza fare nulla, accontentandosi di far scattare l'allarme delle nostre difese». Una guerra anche sul piano psicologico e fisico, come dimostrano talvolta i segni sotto gli occhi di chi incontriamo: «Proprio questa notte l'allarme è suonato più volte, ma quasi tutti siamo rimasti nei nostri letti e non siamo andati nei rifugi. Un po' di paura ovviamente c'è, ma non possiamo impazzire per colpa dei Russi».

Ripartiamo zigzagando tra i tram e le nostre guide ci accompagnano al Lychakiv Cemetery. Anzi, nel prato accanto, dove centinaia di bandiere ucraine giallo-azzurre sventolano insieme a molte altre storiche bandiere rosso-nere dei nazionalisti locali. Scendiamo dai mezzi e sono quasi affascinato dal rumore delle stoffa agitata dal vento e da questo gioco di colori che occupa una lunga striscia di terreno che sale dolcemente verso la collina. Poi, mentre ci avviciniamo, il vento diminuisce, le bandiere smettono di sventolare e metto meglio a fuoco i dettagli: sotto ogni bandiera c'è un rettangolo di terra, una croce, una semplice targa e una foto. Sono tutti i combattenti di Leopoli morti in guerra. Centinaia e centinaia di sepolture di legno, tutte simili tra loro: soldati semplici e comandanti, operai e insegnanti, nonni e ragazzi ancora iscritti all'università. Poco importa cosa fossero prima: ora sono diventati eroi, resi immortali da una granata, un missile o un proiettile. E in questa distesa di morte, gli unici a sorridere sono loro, ripresi quasi sempre in foto con la divisa militare e lo sguardo fiero.

Saliamo in silenzio le fila di tombe ordinate: le prime sono di chi è caduto nel 2021 e poi, passo dopo passo, i giorni e i mesi passano: prima l'inverno di neve e fango, una nuova estate, poi di nuovo inverno e mentre torna l'estate arriviamo all'ultima fila perdendo il conto di quante croci abbiamo superato. Sulla sinistra qualcuno con una pala sta ancora finendo di sistemare la terra su una sepoltura: è un soldato morto la scorsa settimana e il cui corpo è appena tornato dal fronte. E già si scavano altre fosse: anche oggi due uomini si sono aggiunti alla conta dei caduti di Leopoli e presto torneranno nella loro città.

Tornando indietro, sulla sinistra intravedo una donna sulla trentina seduta a una tomba. Allungo lo sguardo, siamo a ottobre 2023 e il soldato in foto sembra avere più o meno la stessa età. La moglie? Una fidanzata? Una sorella? Nel frattempo lei alza gli occhi e i nostri sguardi si incontrano per un istante: sono rossi e gonfi di lacrime. Un'onda dolore mi raggiunge in pieno e mi paralizza: mi fermo, una parte di me vorrebbe andarla ad abbracciare ma i piedi ripartono, fuggendo da un dolore che è ancora così grande dopo molti mesi, consapevole che non esistono parole in nessuna lingua in grado di curare certe ferite. Ma in questo venerdì una parte di me è si è avvicinata a quella panchina ed è rimasta seduta là, ascoltando in silenzio il rumore delle bandiere scosse dal vento.

È ora di ripartire e così ce ne torniamo alla spicciolata ai nostri mezzi. In fondo, dall'altra parte della strada, un bambino a passeggio si volta a guardare incuriosito prima nella nostra direzione e poi verso sua madre. Chissà se tra i "perché" di un bambino di Leopoli oggi ci sono "perché papà è via?", "perché la mia amichetta a scuola è sempre triste e dice che suo fratello non tornerà più?", "perché la notte suona la sirena?", "perché la mamma ogni tanto piange a cena di nascosto da sola?". Ma nei suoi occhi mi sembra invece di scorgere una sola domanda: "Quando? Quando finirà tutto questo?". Poi entrambi girano dietro l'angolo e il bimbo sparisce senza fermarsi a chiedere nulla: meglio così, penso, perché non avrei saputo cosa rispondergli.

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